Sette minuti dopo la mezzanotte // Estratto

Il mostro si presentò poco dopo la mezzanotte. E’ così che fanno.

Conor era sveglio quando arrivò.
Aveva avuto un incubo. Be’, non un incubo: l’incubo. Quello rincorrente che da qualche tempo lo ossessionava. Quello con il buio e il vento e le urla. Quello con le mani che gli scivolano dalla presa, per quanto cercasse di trattenerle. Quello che ogni volta si concludeva con…
– Va’ via – sussurrò il ragazzo all’oscurità della sua camera, cercando di respingere l’incubo, di impedirgli di seguirlo nel mondo della veglia. – Va via adesso.
Diede uno sguardo all’orologio che sua madre aveva messo sul comodino. 12:07. Sette minuti dopo la mezzanotte. Tardi, con la scuola il giorno dopo, di certo tardi per una domenica. Si mise a sedere sul letto.
Non aveva mai detto a nessuno dell’incubo. Non a sua madre, ovvio, ma neanche ad altri, neppure al padre durante le telefonate che gli faceva (più o meno) ogni due settimane, decisamente non alla nonna, né ai compagni di scuola. Assolutamente no.
Quello che accadeva nell’incubo era qualcosa che nessun altro avrebbe mai dovuto sapere.
Conor batté le palpebre, frastornato, rivolse un’occhiata alla stanza, e si accigliò. Mancava qualcosa. Si mise a sedere, ora un po’ più sveglio. L’incubo stava ormai dissolvendosi, ma c’era qualcosa che non sapeva identificare, qualcosa di diverso, qualcosa che…
Restò in ascolto, proteso verso il silenzio, ma non c’era null’altro che la casa silenziosa, tutt’intorno a lui, qualche sporadico scricchiolio dal piano di sotto, dove non c’era anima viva, o un frusciare di lenzuola dalla camera accanto, quella di sua madre.
Nulla.
Poi, d’un tratto, qualcosa. Qualcosa che, comprese, era ciò che l’aveva svegliato.
Qualcuno stava chiamando il suo nome. 
Conor.

Per un attimo, fu colto da un’ondata di panico, sentì le budella che si contorcevano. L’aveva seguito? Era uscito dall’incubo e…?
“Non essere sciocco” si disse. “Sei troppo grande per credere ai mostri.”
Lo era davvero. Aveva compiuto tredici anni il mese prima. I mostri erano roba da bambini. Roba da piscialletto. Roba da…
Conor.
Eccolo ancora. Il ragazzo deglutì. Era stato un ottobre eccezionalmente caldo, e aveva ancora la finestra aperta. Forse il fruscio delle tende che sbatacchiavano per la brezza poteva aver dato l’impressione di…
Conor.
D’accordo, non era il vento. Era decisamente una voce, ma non una voce che riconosceva. Non quella di sua madre, poco ma sicuro. Non era di certo femminile, e per un attimo il ragazzo si domandò persino se non fosse spuntato a sorpresa suo padre dagli Stati Uniti, magari era arrivato troppo tardi per telefonare e…
Conor.
No. Non era suo padre. Quella voce aveva qualcosa di insolito, qualcosa di mostruoso, di selvatico e indocile.
Poi udì un pesante cigolio di legno, come se qualcosa di enorme camminasse sulle assi del pavimento.
Non voleva andare a controllare. E, al tempo stesso, c’era una parte di lui che non desiderava altro.
Ormai del tutto sceglio, scalciò via le lenzuola, scese dal letto e andò alla finestra. Alla pallida luce incerta della luna si stagliava netto il campanile, in cima alla collinetta dietro casa sua, accanto alla quale curvavano i binari della ferrovia, due strisce di duro acciaio che scintillavano nella notte. E la luna risplendeva sul camposanto di fianco alla chiesa, pieno di lapidi ormai quasi illeggibili.
Conor vedeva anche il grande tasso che si ergeva al centro del camposanto, un albero così antico che pareva esser fatto della stessa pietra della chiesa. Sapeva che era un tasso solo perchè l’aveva sentito dire a sua madre, una prima volta da bambino, quando lei gli aveva spiegato che non doveva mangiarne le bacche, che erano velenose, e di nuovo quell’ultimo anno, quando le era presa l’abitudine di guardare dalla finestra della cucina con una faccia strana dicendogli: – Quello lì è un tasso, sai?
Ed ecco che risentì il suo nome.
Conor.
Come se qualcuno glielo sussurrasse nelle orecchie.
– Cos’è? – disse, il cuore che gli martellava in petto, d’un tratto impaziente di scoprire cosa stesse per accadere.
Una nuvola si spostò davanti alla luna, ammantando di oscurità l’intero paesaggio. Una raffica di vento – ssssssssssh – sfrecciò giù dalla collina dentro la sua stanza, gonfiando le tende. Il ragazzo sentì di nuovo il crocchiare e scricchiolare del legno, come il gemito di una creatura vivente, come lo stomaco affamato del mondo che ringhia in cerca di un pasto.
E allora la nuvola si scostò, e la luna riprese a splendere.
Sopra il tasso.
Che ora spiccava massiccio in mezzo al giardino sul retro.

Eccolo, il mostro.
Appena Conor lo guardò, i rami più alti dell’albero si raccolsero a formare un grande volto terrificante, lo scintillio di una bocca e di un naso e persino di due occhi che lo scrutavano di rimando. Altri rami si intrecciarono, fra altri cigolii e gemiti, finché non si formarono due lunghe braccia e una seconda gamba che si posò alla base del tronco. Il resto dell’albero divenne una spina dorsale, poi un busto, e le foglie sottili come spilli s’intesserono in un’irsuta pelle verde che si muoveva e respirava come se sotto ci fossero muscoli e polmoni.
Già più in alto della finestra di casa, man mano che si componeva il mostro si fece ancora più grande, fino ad assumere un aspetto più imponente, grandioso a vedersi, possente. E intanto non smetteva di fissare Conor, che udiva il respiro forte e ventoso proveniente dalla sua bocca. La creatura appoggiò le mani gigantesche su entrambi i lati della finestra e chinò il capo fino a che i suoi occhi enormi non ne invasero l’intera visuale, tenendo il ragazzo sotto l’assedio del suo sguardo truce. La casa scricchiolò, gemendo sommessa sotto il suo peso.

E fu allora che il mostro parlò.
Conor O’Malley, disse, mentre un poderoso alito caldo odoroso di terriccio entrava dalla finestra e gli soffiava indietro i capelli. La voce tuonava potente, gutturale, così forte che Conor la sentì vibrare nel petto.
Sono venuto a prenderti, Conor O’Malley, disse il mostro, spingendosi contro la casa, mentre i quadri sul muro tremavano, libri e giochini elettronici cadevano e un vecchio rinoceronte di peluche ruzzolò per terra.
Un mostro, pensò il ragazzo. Un mostro vero in tutto e per tutto. Vivo e reale. Non in un sogno, ma lì, alla sua finestra.
Ed era venuto a prenderlo.
Ma Conor non scappò via.
In realtà, si rese conto di non essere neppure spaventato.
La sola cosa che riusciva a provare, la sola cosa che aveva davvero provato sin dal momento in cui il mostro s’era rivelato era una crescente delusione.
Perchè quello non era il mostro che si sarebbe aspettato.
– E allora vieni a prendermi – disse.
Si fece uno strano silenzio.
Che hai detto? chiese il mostro.
Conor incrociò le braccia. – Ho detto: allora vieni a prendermi.

Il mostro tacque un istante, poi con un ruggito batté due pugni sulla casa. Il soffitto si curvò sotto i colpi, ed enormi crepe apparvero sui muri. Il vento invase la stanza, l’aria rimbombò di muggiti furenti.
– Sbraita quanto ti pare – fece Conor, stringendosi nelle spalle e alzando appena un po’ la voce. – Ho visto di peggio.
Il mostro ruggì ancora più forte e spaccò con un braccio la finestra, fracassando vetro, legno e mattoni. Una mano di rami mastodontica, serpeggiante e contorta, ghermì il ragazzo per la vita e lo alzò da terra. Lo strappò fuori dalla sua stanza, nella notte, in alto sopra il giardino, stagliandolo contro il cerchio della luna, le dita così serrate alle costole che il ragazzo quasi non respirava. Conor vide le zanne irregolari, di legno duro e nodoso, e sentì l’alito caldo che gli soffiava addosso.
Poi il mostro si fermò di nuovo.
Proprio non hai paura, vero?
– No. Non di te, comunque.
Il mostro strinse gli occhi.
Ne avrai, disse. Prima della fine.
E l’ultima cosa che Conor vide fu la bocca che si spalancava con un boato per divorarselo vivo.