Annientamento // Estratto

La torre, che in teoria non doveva esserci, affonda nel terreno in un punto appena prima che la foresta di pini neri faccia strada alla palude e poi ai canneti e agli alberi contorti delle pianure salmastre. Dietro le pianure salmastre e i canali naturali c’è l’oceano e, un po’ più in là, sulla costa, un faro abbandonato. Tutta questa zona del paese è disabitata da decenni, per motivi non facili da raccontare.
La nostra spedizione era la prima ad entrare nell’Area X da oltre due anni e l’equipaggiamento di chi ci aveva preceduto era in gran parte arrugginito, le tende e i capannoni ridotti a poco più che gusci. Guardando quel paesaggio imperturbato, non credo che qualcuna di noi riuscisse già a vedere la minaccia.
Eravamo in quattro: una biologa, un’antropologa, una topografa e una psicologa. Io ero la biologa. Stavolta eravamo tutte donne, scelte come parte del complesso insieme di variabili che governava l’invio delle spedizioni. La psicologa, che aveva qualche anno più di noi, fungeva da comandante. Ci aveva messo tutte sotto ipnosi per attraversare il confine, ci vollero quattro giorni di dura marcia per raggiungere la costa.
La nostra missione era semplice: continuare l’indagine governativa sui misteri dell’Area X, muovendo lentamente in avanscoperta dal campo base.
La spedizione poteva durare giorni, mesi, perfino anni, a seconda di vari stimoli e condizioni. Avevano viveri per sei mesi, mentre al campo base ne erano già stati immagazzinati per altri due anni. Ci avevano anche assicurato che potevamo nutrirci con i prodotti della terra, in caso di necessità. Avevamo solo cibi affumicati, in scatola, o confezionati. Il nostro strumento più esotico consisteva in un rilevatore che ognuna di noi aveva ricevuto in dotazione e portava appeso a un passante della cintura: un rettangolino metallico nero, con al centro un foro coperto da un vetro. Se il foro si fosse illuminato di rosso, avevamo trenta minuti per riparare in «un luogo sicuro». Non ci avevano detto che cose rilevasse quell’aggeggio, né perchè ci fosse da aver paura se si fosse illuminato di rosso. Passate le prime ore, mi ci ero talmente abituata che non lo avevo più guardato. Orologi e bussole ci erano stati vietati.
Arrivate al campo, cominciammo a sostituire l’equipaggiamento obsoleto o in avaria con quello che avevamo portato, e a montare le nostre tende. I capannoni li avremmo ricostruiti in un secondo momento, una volta sicure che l’Area X non avesse avuto effetti su di noi. I membri dell’ultima spedizione avevano finito per allontanarsi, l’uno dopo l’altro. Con il tempo, erano tornati dalle famiglie, quindi a rigor di logica non erano spariti. Erano semplicemente scomparsi dall’Area X e, con mezzi ignoti, riapparsi nel mondo oltre il confine. Non erano stati in grado di fornire ragguagli su quel viaggio. Il nostro trasferimento si era svolto nell’arco di diciotto mesi, ed era una fase che le spedizioni precedenti non avevano sperimentato. Ma anche altri fenomeni potevano sfociare nella «prematura fine delle spedizioni», per dirla come i nostri superiori, quindi dovevamo verificare la nostra capacità di resistenza a quel luogo.
Dovevamo anche acclimatarci all’ambiente. Nella foresta vicino al campo base si potevano incontrare orsi neri o coyote. A un tratto potevi udire un richiamo e vedere una nitticora staccarsi da un ramo e, nella distrazione, calpestare un serpente velenoso, di cui esistevano almeno sei varietà. Pantani e ruscelli nascondevano enormi rettili acquatici, perciò stavamo attente a non spingerci troppo in là quando entravamo in acqua a prelevare i nostri campioni. Eppure, questi aspetti dell’ecosistema non preoccupavano sul serio nessuna di noi. Ma c’erano altri elementi che avevano la capacità di turbarci. Tanto tempo fa qui esistevano delle città, e infatti incontrammo misteriose tracce di insediamenti umani: capanne in sfacelo con i tetti crollati, sfumati di rosso, ruote di carro semisepolte nel terreno, con i raggi coperti di ruggine, e i contorni appena visibili di vecchi recinti per il bestiame, che ora facevano solo da ornamento alla terra grassa coperta d’aghi di pino.
Ma la cosa più inquietante era un lamento profondo, potente, all’imbrunire. Il vento del mare e la strana immobilità dell’entroterra offuscavano la nostra capacità di calcolare la direzione, e quel rumore sembrava permeare l’acqua nera che bagnava i cipressi. L’acqua era così scura che rimandava l’immagine dei nostri volti, e non si increspava mai, inerte come vetro, mentre rifletteva le barbe di muschio grigio che soffocavano i cipressi. Guardando da quella parte, verso l’oceano, si vedeva solo l’acqua nera, il grigio dei tronchi, e la pioggia di muschio che scendeva costante, immobile. Udivi solo quel lamento profondo. E’ impossibile capire che effetto facesse senza essere lì. E’ impossibile anche comprenderne la bellezza, e quando vedi la bellezza nella desolazione qualcosa dentro di te cambia. La desolazione cerca di piantare radici nel tuo intimo.
Come ho già scritto, trovammo la torre in un punto appena prima che la foresta diventasse acquitrinosa per poi trasformarsi in palude salmastra. Questo succedeva al quarto giorno dall’arrivo al campo base, quando eravamo già praticamente in grado di orientarci. Non ci aspettavamo di trovare niente in quel punto, come risultava sia dalle mappe che ci eravamo portate sia dai documenti macchiati di umidità e sbaffati di polline di pino lasciati dai nostri predecessori. Invece era proprio lì, circondata da una frangia di cespugli, seminascosta dal muschio caduto a sinistra del sentiero: un blocco circolare di pietra grigiastra che sembrava un agglomerato di cemento e conchiglie tritate. Misurava circa diciotto metri di diametro, quel blocco circolare, ed era sopraelevato di circa venti centimetri. Sulla superficie non era stato scritto né inciso niente che potesse svelare in qualche modo la funzione o l’identità di chi l’aveva costruita.  Nella parte del blocco che puntava a nord, un’apertura rettangolare rivelava delle scale che scendevano a elica nel buio. L’ingresso era oscurato dalle tele dei ragni delle banane e dai detriti dei temporali, ma dal fondo spirava una corrente fresca.
All’inizio, solo io la vedevo come una torre. Non so perchè mi venne la parola torre, dal momento che scavava un tunnel nel terreno. Avrei potuto benissimo considerarla un bunker o un edificio sommerso. Eppure appena vidi le scale, ricordai il faro sulla costa ed ebbi una visione improvvisa dei membri dell’ultima spedizione, che si allontanavano, l’uno dopo l’altro, mentre il terreno qualche tempo dopo si spostava, seguendo un percorso costante e prestabilito, lasciando il faro dov’era sempre stato, ma depositando la sua parte sotterranea lontano dalla costa. Lo vidi in ampi e complessi dettagli mentre eravamo tutte lì e, a ripensarci, la considero la prima idea irrazionale che mi balenò una volta giunte a destinazione.
– Non è possibile, – disse la topografa, fissando le sue mappe. L’ombra solida del tardo pomeriggio la immergeva in una fredda oscurità e rese le sue parole più insistenti del normale. Il sole ci stava avvertendo che presto avremmo dovuto usare le torce elettriche per interrogare l’impossibile, anche se io sarei stata ben lieta di farlo al buio.
– Fatto sta che eccola qui, – dissi io. – A meno che non siamo vittime di un’allucinazione di massa.
– Il modello architettonico è poco riconoscibile, – osservò l’antropologa. – I materiali sono ambigui, indicano un’origine locale ma non necessariamente una fabbricazione locale. Se non entriamo, non capiremo se è una costruzione primitiva o moderna, o una via di mezzo. Neanche me la sento di azzardare l’epoca a cui risale.
Non c’era modo di informare i nostri superiori di quella scoperta. Una regola delle spedizioni nell’Area X imponeva di astenersi da qualunque contatto esterno, per timore di un’irrevocabile contaminazione. Inoltre avevamo portato con noi pochissime apparecchiature conformi all’attuale livello di tecnologia. Non avevamo telefoni cellulari né satellitari, nessuno computer, nessuna videocamera, nessun complesso dispositivo di rilevamento se non quelle strane scatole nere appese alla cintura. Le macchine fotografiche richiedevano una camera oscura improvvisata. Senza i telefoni cellulari, in particolare, le altre avevano la sensazione che il mondo reale fosse lontanissimo, ma io avevo sempre preferito non usarli. Come armi, avevamo dei coltelli, alcune vecchie pistole dentro un contenitore chiuso a chiave, e un fucile d’assalto, quest’ultimo una riluttante concessione agli attuali standard di sicurezza.
Ci chiedevano soltanto di prendere appunti, come questi, su un diario, come questo: leggero ma praticamente indistruttibile, di carta impermeabile, copertina flessibile bianca e nera, righe blu orizzontali per scrivere e riga rossa a sinistra a segnare il margine. I diari avrebbero fatto ritorno con noi o sarebbero stati recuperati dalla spedizione seguente. Ci avevano invitato a essere molto circostanziate, in modo che chiunque non conoscesse l’Area X potesse capire i nostri resoconti. Ci avevano anche ordinato di non scambiarci i diari. Secondo i nostri superiori, troppo informazioni condivise avrebbero distorto le nostre osservazioni. Ma io sapevo per esperienza quanto fosse vano quell’obbiettivo, quel tentativo di eliminare il pregiudizio. Nulla che vivesse e respirasse era davvero oggettivo: nemmeno nel vuoto, nemmeno se il cervello avesse obbedito unicamente al desiderio di immolarsi per la verità.
– Sono emozionata da questa scoperta, – intervenne la psicologa prima che potessimo dilungarci troppo sulla torre. – E voi, non siete emozionate? – Non ce lo aveva mai chiesto prima. Durante l’addestramento, faceva più domande del tipo: «Quanto pensi che potresti rimanere calma in caso di emergenza?» All’epoca mi era sembrata una pessima attrice, recitava una parte. Adesso era ancora più palese, come se essere il nostro capo la innervosisse in qualche modo.
– Certo che è un’emozione… di quelle inaspettate, fra l’altro, – dissi, cercando, con scarsi risultati, di non suonare troppo ironica. Mi accorsi, con stupore, che mi sentivo sempre più a disagio, soprattutto perché nella mia fantasia, nei miei sogni, quella scoperta sarebbe stata tra le più banali. Nella mia testa, prima di attraversare il confine, mi ero figurata una quantità di cose: città immense, bizzarri animali e una volta, durante un periodo di malattia, un mostro enorme che sorgeva dalle onde piombando sul nostro campo base.
La topografa, invece, si limitò ad alzare le spalle, senza rispondere alla domanda della psicologa. L’antropologa annuì come per darmi ragione. L’entrata della torre che conduceva in basso esercitava una sorta di presenza, era una pagina bianca su ci potevamo scrivere tante cose. Quella presenza si manifestava come una febbriciattola, che ci opprimeva tutte quante.
Vi direi i nomi delle altre tre, se fosse importante, ma solo la topografa sarebbe durata un paio di giorni in più. E poi, ci avevano sempre vivamente sconsigliato di usare i nomi: dovevamo concentrarci sulla nostra missione e «lasciare a casa qualunque dato personale». I nomi appartenevano al luogo da cui venivamo, non alle persone che eravamo durante la missione nell’Area X.