Senza categoria

Fidanzati dell’inverno // Estratto

Frammento
Al principio eravamo uno.
Ma Dio non era soddisfatto di quella forma, così ha cominciato a dividerci. Dio si divertiva molto con noi, poi si stufava e ci dimenticava. Nella sua indifferenza era capace di una crudeltà che mi faceva paura. Sapeva anche mostrarsi dolce, e l’ho amato come non ho mai amato nessuno.
In un certo senso credo che Dio, io e gli altri avremmo potuto vivere felici, se non ci fosse stato quel maledetto libro. Mi faceva ribrezzo. Conoscevo il vincolo che mi collegava al libro nel più nauseante dei modi, ma è un orrore che è arrivato dopo, molto dopo. Non l’ho capito subito, ero troppo ignorante.
Amavo Dio, è vero, ma odiavo quel libro che apriva per un nonnulla. A Dio invece piaceva un sacco. Quand’era contento scriveva. Quand’era arrabbiato scriveva. E un giorno in cui era di pessimo umore ha commesso un’enorme sciocchezza.
Ha fatto a pezzi il mondo.

I FIDANZATI

L’archivista
Le vecchie dimore hanno un’anima, si sente spesso dire. Su Anima, l’arca in cui gli oggetti prendono vita, le vecchie dimore avevano più che altro la tendenza a sviluppare un carattere orribile.
L’Archivio di famiglia, per esempio, era sempre di malumore. Per esprimere il suo malcontento non faceva che scricchiolare, cigolare, sgocciolare, e sbuffare. Non gli piacevano le correnti d’aria che d’estate facevano sbattere le porte chiuse male. Non gli piacevano le piogge che d’autunno gli tappavano le grondaie. Non gli piaceva l’umidità che d’inverno penetrava nei muri. Non gli piacevano le erbacce che ogni primavera tornavano a invadergli il cortile.
Ma la cosa che all’edificio dell’Archivio piaceva meno erano i visitatori che non rispettavano gli orari d’apertura.
E’ probabilmente il motivo per cui in quell’alba di settembre l’edificio scricchiolava, cigolava, sgocciolava e sbuffava ancora più del solito: perché sentiva arrivare qualcuno ed era decisamente troppo presto per consultare gli schedari. Per giunta il visitatore non era educatamente in attesa davanti al portone, no, stava penetrando nei luoghi come un ladro, direttamente dal guardaroba dell’Archivio.
Nel bel mezzo della specchiera di un armadio emerse un naso.
Il naso venne avanti, subito seguito da un paio di occhiali, un’arcata sopracciliare, una fronte, una bocca, un mento, guance, occhi, capelli, collo e orecchie. Sospesa al centro dello specchio fino alle spalle, la faccia guardò a destra e a sinistra. Poi, più in basso, affiorò la piega di un ginocchio portandosi dietro un corpo che si estrasse dal vetro tutto insieme, come se uscisse da una vasca da bagno. La figura sbucata dallo specchio consisteva in un vecchio cappotto logoro, un paio di occhiali grigi e una lunga sciarpa a tre colori.
Sotto quegli strati c’era Ofelia.
Furiosi di quell’intrusione che si faceva beffe del regolamento, tutti gli armadi del guardaroba si misero a protestare facendo cigolare i cardini e battendo le zampe, mentre le grucce si urtavano rumorosamente fra loro come spinte da uno spirito aggressivo.
Quelle manifestazioni di collera non intimorirono minimamente Ofelia, abituata alla suscettibilità dell’Archivio.
«Buoni» mormorò. «Buoni…».
Subito i mobili si calmarono e le grucce tacquero. L’edificio dell’Archivio l’aveva riconosciuta.
Ofelia uscì dal guardaroba e chiuse la porta. Sul cartello c’era scritto:
ATTENZIONE: STANZE FREDDE
COPRIRSI BENE
Con le mani in tasca e la lunga sciarpa a mo’ di strascico Ofelia passò davanti a una serie di schedari etichettati: “Registro delle nascite”, “Registro dei decessi”, “Registro delle dispense di consanguineità” e così via. Spinse delicatamente la porta della sala da consultazione. Deserta. Le persiane erano chiuse, ma lasciavano penetrare qualche raggio di sole che nella penombra illuminava una fila di leggii. Il canto di un merlo in giardino sembrava rendere quello sprazzo di luce ancora più luminoso. Nell’Archivio faceva così freddo che Ofelia era tentata di aprire tutte le finestre per far entrare l’aria tiepida dell’esterno.
Per un attimo rimase immobile nel vano della porta a osservare le strisce di sole che scivolavano lentamente sul parquet man mano che il giorno avanzava, e a respirare a fondo il profumo di mobili vecchi e carta fredda.
Un odore in cui era stata immersa fin dall’infanzia e che presto non avrebbe sentito più.
Si diresse lentamente verso l’alloggio privato dell’archivista, protetto da una semplice tenda. Malgrado l’ora mattutina c’era nell’aria un forte aroma di caffè. Ofelia tossicchiò nella sciarpa per annunciarsi, ma il rumore venne coperto da una vecchia aria d’opera. Allora scostò la tenda. Non fu difficile trovare l’archivista, dato che la stanza fungeva allo stesso tempo da cucina, salotto, camera da letto e gabinetto di lettura: era seduto sul letto, intento a sfogliare un giornale.
Era un vecchio con i capelli bianchi scarmigliati. Incastrata sotto il sopracciglio aveva una lente d’ingrandimento che gli rendeva l’occhio enorme. Portava i guanti, e sotto la giacca indossava una camicia bianca mal stirata.
Ofelia tossicchiò un’altra volta, ma l’uomo non la sentì per via del grammofono. Immerso nella lettura, accompagnava canticchiando l’arietta operistica, senza peraltro azzeccarci molto. E poi c’era il gorgoglio della caffettiera, il borbottio della stufa e tutti i consueti piccoli rumori dell’edificio dell’Archivio.
Ofelia si impregnò dell’atmosfera particolare che regnava nell’alloggio: le note stonate del vecchio, il nascente chiarore del giorno che filtrava attraverso le tende, il fruscio delle pagine girate con attenzione, l’odore del caffè e, in sottofondo, il profumo di naftalina di una lampada a gas. In un angolo della stanza c’era una scacchiera su cui i pezzi si muovevano da soli, come se due avversari invisibili stessero facendo una partita. Il tutto le faceva venire voglia di non toccare niente, di lasciare le cose com’erano e fare dietrofront per non sciupare quel quadretto famigliare.
Sennonché doveva risolversi a spezzare l’incanto. Si avvicinò al letto e tamburellò sulla spalla dell’archivista.
«Santi numazi!» esclamò l’uomo sobbalzando. «Potresti anche avvertire prima di piombare sulla gente in questo modo!».
«Ci ho provato» si giustificò Ofelia raccogliendo la lente d’ingrandimento che era rotolata sul tappeto e restituendola al vecchio. Poi si tolse il cappotto che la avvolgeva da capo a piedi, srotolò l’interminabile sciarpa e posò il tutto sullo schienale di una sedia. Di lei rimase solo una corporatura esile, folti riccioli bruni raccolti alla meno peggio, i due rettangoli degli occhiali e un vestito che sarebbe stato più adatto a una donna matura.
«Sei entrata ancora una volta dal guardaroba, eh?» borbottò l’archivista pulendo la lente con la manica. «Tu e la tua mania di passare attraverso gli specchi a ore indebite! Eppure lo sai che questa baracca è allergica alle visite a sorpresa. Uno di questi giorni ti beccherai una trave sulla testa, e te la sarai cercata».
La sua voce burbera faceva fremere due magnifici baffi che gli arrivavano fino alle orecchie. Si alzò laboriosamente dal letto e prese la caffettiera mormorando qualche parola in un gergo che su Anima era rimasto l’unico a parlare. A forza di maneggiare archivi il vecchio viveva totalmente nel passato. Perfino la gazzetta che stava sfogliando risaliva ad almeno mezzo secolo prima.
«Una ciotola di caffè. figliola?».
L’archivista non era una persona molto socievole, ma ogni volta che guardava Ofelia, come in quel momento, i suoi occhi si mettevano a frizzare come sidro. Aveva sempre avuto un debole per la pronipote, forse perché di tutta la famiglia era quella che gli somigliava di più, antiquata, solitaria e riservata quanto lui.
Ofelia fece di sì con la testa. Il nodo alla gola le impediva di parlare.
Il prozio riempì due tazze fumanti.
«Ho parlato al telefono con tua madre, ieri sera» bofonchiò tra i baffi. «Era talmente eccitata che ho capito la metà di quello che ha detto. Ma credo di aver colto l’essenziale: a quanto pare stai per fare il grande passo».
Ofelia annuì senza aprire bocca. Il prozio aggrottò le sopracciglia.
«Non fare quella faccia, per piacere. Se tua madre ti ha trovato un brav’uomo, non c’è niente da ridire».
Le porse la tazza e si lasciò ricadere pesantemente sul letto facendo cigolare tutte le molle.
«Siediti. Dobbiamo parlare seriamente, da padrino a figlioccia».
Ofelia avvicinò una sedia al letto. Osservò il prozio e i suoi fiammeggianti baffoni con una sensazione di irrealtà. Guardandolo le sembrava di contemplare una pagina della sua vita che le veniva strappata sotto il naso.
«So perché mi stai guardando così» dichiarò il vecchio, «solo che la risposta è no. Le spalle cascanti, gli occhiali tetri e i sospiri da derelitta pesanti come macigni stavolta non attaccano». Brandì pollice e indice, irti di peli bianchi. «Hai già respinto due cugini! Erano brutti come macinapepe e zotici come vasi da notte, te ne do atto, ma ogni rifiuto è stato un insulto all’intera famiglia. E la cosa peggiore è che mi sono reso tuo complice nel far saltare gli accordi matrimoniali». Sospirò tra i baffi. «Ti conosco come se ti avessi fatta io. Sei più accomodante di un cassettone, mai una parola in più, mai un capriccio, ma appena ti si parla di marito diventi cocciuta come un’incudine! Eppure hai raggiunto l’età, che il tizio ti piaccia o meno. Se non ti sistemi, la famiglia ti metterà al bando, e io non voglio».
Con il naso nella tazza del caffè Ofelia decise che era arrivato il momento di prendere la parola.
«Non vi preoccupate zio. Non sono venuta a chiedervi di opporvi a questo matrimonio».
In quel momento la puntina del grammofono finì nella trappola di un solco rigato. L’eco ripetuto del soprano riempì la stanza: Se io.. Se io.. Se io.. Se io..
Il prozio era talmente sbalordito che non si alzò per liberare la puntina.
«Come sarebbe? Non vuoi che intervenga?».
«No. L’unico piacere che sono venuta a chiedervi è l’accesso all’archivio».
«Il mio archivio?».
«Oggi».
Se io.. Se io.. Se io.. balbettava il giradischi.
Scettico, il prozio sollevò un sopracciglio tormentandosi i baffi.
«Non ti aspetti che vada da tua madre a spezzare una lancia in tuo favore?».
«Non servirebbe a niente».
«Né che convinca quel fantoccio di tuo padre?».
«Sposerò l’uomo che hanno scelto per me. Non è poi così difficile».
La puntina del giradischi saltò e continuò il suo bravo cammino mentre il soprano dichiarava trionfalmente Se io t’amo bada a te!
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso e sostenne lo sguardo del padrino senza batter ciglio. I suoi occhi erano marroni quanto quelli del vecchio erano dorati.
«Alla buon’ora!» sbuffò sollevato. «Confesso che ti credevo incapace di pronunciare queste parole. A quanto pare il tipo ha fatto colpo. Sputa il rospo e dimmi chi è!».
Ofelia si alzò per togliere le tazze. Voleva sciacquarle, ma il lavello era già pieno fino all’orlo di stoviglie sporche. Di norma non le piaceva fare le faccende domestiche, ma quella mattina si tolse i guanti, si rimboccò le maniche e lavò i piatti.
«Non lo conoscete» disse alla fine.
Il suo mormorio si perse nello scroscio dell’acqua. Il prozio spense il grammofono e si avvicinò all’acquario.
«Non ho capito, figliola».
Ofelia chiuse il rubinetto. Dato l’eloquio incerto e il tono in sordina doveva spesso ripetere quello che diceva.
«Ho detto che non lo conoscete».
«Stai dimenticando con chi hai a che fare!» ridacchiò il prozio incrociando le braccia. «Forse non metterò mai il naso fuori dall’archivio, ma conosco l’albero genealogico meglio di chiunque altro. Dalla Valle fino ai Grandi Laghi, non c’è lontano cugino di cui io ignori l’esistenza».
«Non lo conoscete» insisté Ofelia.
Con lo sguardo nel vuoto, passò la spugna su un piatto. Toccare quelle stoviglie senza guanti di protezione la faceva andare indietro nel tempo suo malgrado. Sarebbe stata capace di descrivere nei minimi particolari tutto ciò che il prozio aveva mangiato in quei piatti da quando li possedeva. Di solito, da brava professionista, Ofelia non maneggiava oggetti altrui senza guanti, ma il prozio le aveva insegnato a leggere proprio lì, in quella casa. Conosceva personalmente ogni utensile a menadito.
«Non è della famiglia» annunciò alla fine. «Viene dal Polo».
Seguì un lungo silenzio turbato solo dal gorgoglio dei tubi. Ofelia si asciugò le mani sul vestito e puntò gli occhiali rettangolari sul padrino che era improvvisamente rimpicciolito, neanche gli fossero piombati vent’anni sul groppone. I baffi gli pendevano come bandiere a mezz’asta.
«Che storia è questa?» fece con voce atona.
«Non so altro» disse piano Ofelia, «se non che secondo mamma è un buon partito. Non so come si chiama e non l’ho mai visto in faccia».
Il prozio andò a prendere sotto il cuscino la scatola di tabacco da fiuto, se ne infilò una presa in ogni narice e starnutì in un fazzoletto. Era il suo modo di schiarirsi le idee.
«Dev’esserci un errore…».
«Vorrei crederlo anch’io, zio, ma pare che non ce ne siano».
A Ofelia cadde di mano un piatto che si ruppe in due nell’acquaio. Dette i pezzi al prozio, che li fece combaciare. Il piatto si cicatrizzò subito e lui lo posò sullo sgocciolatoio.
Il prozio era un Animista di rilievo. Con le sue mani sapeva aggiustare assolutamente tutto. Gli oggetti più improbabili gli ubbidivano come cagnolini.
«C’è di sicuro un errore» disse. «Benché io sia un archivista, non ho mai sentito parlare di una commistione così contro natura. Meno noi Animisti abbiamo a che fare con quella gente e meglio è. Punto».
«Tuttavia il matrimonio si farà» mormorò Ofelia ricominciando a lavare i piatti.
«Si può sapere cosa vi ha punto, a te e tua madre?» sbottò il prozio incredulo. «Di tutte le arche, il Polo è quella che gode della peggior reputazione. Hanno certi poteri che ti sfasciano la testa! Non è neanche una vera famiglia, sono bande che si sbranano fra loro! Sai cosa si dice di loro?».
Ofelia ruppe un altro piatto. Concentrato sulla propria collera, il prozio non si rendeva conto dell’impatto che le sue parole avevano su di lei. Non era comunque facile capirlo, perché Ofelia aveva un viso lunare su cui le emozioni affioravano raramente in superficie.
«No» rispose soltanto. «Non so cosa si dice e non mi interessa. Ho bisogno di una documentazione seria. Quindi l’unica cosa che vorrei, se me lo permettete, è accedere all’archivio».
Il prozio rimise insieme l’altro piatto e lo posò sullo sgocciolatoio. La stanza cominciò a scricchiolare e far cigolare le travi: il malumore dell’archivista si trasmetteva a tutto l’edificio.
«Non ti riconosco più! Facevi tanto la difficile con i tuoi cugini e, adesso che ti infilano un barbaro nel letto, guarda come sei rassegnata!».
Ofelia si bloccò con la spugna in una mano e una tazza nell’altra, e chiuse gli occhi. Immersa nel buio delle palpebre guardò dentro se stessa.
Rassegnata? Per essere rassegnati bisogna accettare una situazione, e per accettare una situazione bisogna capirne il perché e il percome. Ofelia invece non ci capiva niente di niente. Fino a poche ore prima non sapeva nemmeno di essere fidanzata. Aveva la sensazione di avanzare verso un precipizio, di non appartenersi più. Se si arrischiava a pensare al futuro, vedeva ignoto a perdita d’occhio. Era frastornata, incredula, aveva le vertigini, questo sì, come un paziente a cui sia appena stata diagnosticata una malattia incurabile, ma non era rassegnata.
«Non riesco neanche a immaginare un pastrocchio del genere» riprese il prozio. «E poi cosa verrebbe a fare qui, quello straniero? Che ci guadagna? Con tutto il rispetto per te, figliola, non sei certo la foglia più appetibile del nostro albero genealogico. Voglio dire, gestisci un museo, mica hai un’oreficeria!».
Ofelia fece cadere una tazza. Non si trattava di cattiva volontà né di emotività, era una goffaggine patologica. Gli oggetti le scivolavano continuamente di mano. Il prozio ci era abituato, e riparava subito tutto.
«Credo che non abbiate ben capito» articolò Ofelia, rigida. «Non è lui che viene a vivere su Anima, sono io che devo seguirlo al Polo».
Stavolta toccò al vecchio rompere la tazza che stava mettendo a posto. Imprecò nel suo antico vernacolo.
Dalla finestra entrava ormai una luce decisa che rischiarava l’atmosfera come acqua pura depositando piccole scintille sulla cornice del letto, sul tappo di una caraffa e sulla tromba del grammofono. Ofelia non capiva cosa ci facesse tutto quel sole. Sembrava una stonatura nella loro conversazione. Rendeva così lontane e irreali le nevi del Polo che quasi non ci credeva più neanche lei.
Si tolse gli occhiali, li pulì col grembiule e istintivamente se li rimise sul naso, come se la cosa avesse potuto aiutarla a vederci più chiaro. Le lenti, che appena tolte erano diventate perfettamente trasparenti, tornarono rapidamente grigie. Quel vecchio paio di occhiali era un prolungamento di Ofelia che accordava il proprio colore ai suoi umori.
«Vedo che mamma ha dimenticato di dirvi la cosa più importante. Sono state le Decane a combinare le nozze. Per il momento sono le uniche a conoscere i dettagli del contratto di matrimonio».
«Le Decane?» sussultò il prozio.
Il suo volto rugoso si era alterato. Stava finalmente rendendosi conto dell’ingranaggio in cui era intrappolata la pronipote.
«Un matrimonio diplomatico» fece con voce atona. «Che sciagura…».
Si infilò nel naso altre due prese di tabacco e starnutì così forte che dovette rimettersi a posto la dentiera.
«Mia povera ragazza, se ci sono di mezzo le Decane non abbiamo alcuna possibilità di opporci. Ma perché?» chiese tormentandosi i baffi. «Perché tu? E perché lassù?».
Ofelia si lavò le mani sotto il rubinetto e si rimise i guanti. Per quel giorno aveva già rotto abbastanza stoviglie.
«Pare che la famiglia dell’uomo abbia contattato direttamente le Decane per organizzare il matrimonio. Non so perché abbiano scelto me anziché un’altra. Vorrei proprio che si trattasse di un malinteso».
«E tua madre?».
«Al settimo cielo» sussurrò Ofelia con amarezza. «Le hanno detto che è un buon partito, ed è molto più di quanto sperasse». Strinse le labbra riparate dall’ombra di capelli e occhiali. «Non è in mio potere respingere l’offerta. Seguirò il mio futuro marito dove onore e dovere mi obbligano a seguirlo, ma niente di più» concluse allisciandosi i guanti con gesto determinato. «Il matrimonio non sarà consumato».
Il prozio la guardò con aria afflitta.
«No, figlia mia, no. Dimentica questi propositi. Guardati… Sei alta quanto uno sgabello e pesi come un cuscinetto… Che tuo marito ti ispiri o meno, ti consiglio di non opporti mai alla sua volontà, finiresti con le ossa rotte».
Ofelia girò la manovella del grammofono per rimettere in moto il piatto e posò goffamente la puntina sul primo solco del disco. L’arietta operistica risuonò di nuovo nella tromba. Poi lo contemplò con aria assente, le mani dietro la schiena, e non disse più niente.
Ofelia era così. Di solito, nelle situazioni in cui qualunque altra ragazza avrebbe pianto, singhiozzato, urlato e supplicato, lei si limitava a rimanere in silenzio. I cugini le le cugine dicevano sempre che era un po’ sempliciotta.
«Ascolta» borbottò il prozio grattandosi il collo mal rasato. «Non dobbiamo neanche drammatizzare. Probabilmente ho esagerato prima, quando ti parlavo di quella famiglia. Chissà, magari il tipo ti piace».
Ofelia guardò lo zio con attenzione. L’intensa luce del sole sembrava accentuarne i lineamenti e scavare ogni ruga. Con una stretta al cuore si rese conto che quell’uomo, da lei considerato sempre solido come una roccia e insensibile al passaggio del tempo, era ormai un vegliardo stanco. E suo malgrado l’aveva appena fatto invecchiare un po’ di più.
Si sforzò di sorridere.
«Quello che mi serve è una buona documentazione».
Gli occhi dell’uomo ritrovarono un po’ del loro scintillio.
«Rimettiti il cappotto, figliola. Si scende!».

Link per acquistare il libro qua sotto:
https://amzn.to/3ZhMrNX

 

Rispondi