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Il sognatore // Estratto

Prologo

Durante il secondo Sabba della Dodicesima Luna, nella città di Pianto, dal cielo cadde una ragazza.
La sua pelle era blu e il suo sangue era rosso.
Si schiantò sopra un cancello di ferro, che per l’impatto si deformò, e lì rimase appesa, terribilmente inarcata, aggraziata come una danzatrice che si abbandona riversa sul braccio del suo innamorato. Una guglia viscida la teneva inchiodata al suo posto. La punta, che le sporgeva dal petto, scintillava come una spilla. La ragazza ebbe un breve sussulto mentre il suo fantasma si liberava e dai suoi lunghi capelli piovevano boccioli di un rosso fiammante.
In seguito, avrebbero detto che non erano affatto boccioli, ma cuori di colibrì.
Avrebbero detto che la ragazza non aveva perso sangue, ma lo aveva pianto. Che era oscena, perchè mentre moriva a testa in giù si era leccata i denti sfacciatamente e aveva vomitato un serpente che, toccando terra, si era trasformato in fumo. Avrebbero detto che era arrivato uno sciame di falene che, frenetiche, avevano tentato di sollevarla e portarla via.
E questo era vero, ma solo questo.
Le falene però non avevano avuto alcuna possibilità. Non erano più grandi delle boccucce attonite dei bimbi, e persino riunite a dozzine avevano potuto al massimo tirare le ciocche dei capelli che si andavano scurendo, finché le loro ali non si erano appesantite, inzuppate dal sangue della ragazza. Vennero spazzate via insieme ai boccioli quando una raffica di vento e sabbia travolse la strada da cima a fondo. Sotto i piedi, la terra si sollevo con un sussulto. Il cielo ruotò sul suo stesso asse. Un bizzarro luccichio trafisse il fumo che si levava a ondate e il popolo ella città di Pianto dovette strizzare gli occhi per schermarli. Tempesta di sabbia, luce bollente e il puzzo del salnitro. C’era stata un’esplosione. Sarebbero potuti morire tutti, con facilità, ma l’unica vittima era stata quella ragazza, buttata giù da una qualche tasca del cielo.
Aveva i piedi nudi e la bocca macchiata del succo delle prugne selvatiche. Le sue tasche erano piene di frutti. Lei era giovane e bella e stupida e morta.
Era anche blu.
Di un blu opalescente, chiaro. Blu come i fiordalisi o le ali di una libellula o un cielo di primavera, non estivo.
Qualcuno urlò. Le urla richiamarono altre persone, e anche loro urlarono. Non perché una ragazza fosse morta, ma perché era blu, e questo, nella città di Pianto, significava qualcosa. Anche quando il cielo smise di vorticare e la terra si riassestò e il luogo dell’esplosione sputacchiò l’ultimo sbuffo di fumo che si disperse, le urla proseguirono, nutrendosi di una voce dopo l’altra, un virus dell’aria.
Il fantasma della ragazza blu si raccolse e si appollaiò, desolato, sulla punta acuminata della guglia, appena un centimetro sopra il suo stesso petto immobile. Scioccato, ansimante, il fantasma gettò indietro la testa invisibile e guardò in su, addolorato.
Le urla proseguirono ancora.
E dall’altra parte della città, in cima a un cuneo monolitico di metallo liscio e lucido come uno specchio, una statua si mosse, come svegliata dal tumulto e, lentamente, sollevò l’enorme testa caprina.

Parte prima
1
I misteri della città di Pianto

E’ possibile che i nomi vengano dimenticati o perduti. Nessuno lo sapeva meglio di Lazlo Strange. Dapprincipio aveva avuto un altro nome, ma quello era morto come una canzone che nessuno canta più. Forse era stato un antico nome di famiglia, lustrato dall’uso di generazioni. Forse gli era stato dato da qualcuno che lo amava. A lui piaceva pensarlo, ma non ne aveva idea. Tutto quello che aveva era Lazlo e Strange – Strange perché era questo il nome attribuito a tutti i trovatelli del regno di Zosma, e Lazlo perché così si chiamava lo zio senza lingua di un monaco.
«Gliela tagliarono nella prigione di una galea», gli disse fratello Argos, quando Lazlo fu abbastanza grande per capire. «Era un uomo dal silenzio inquietante e tu eri un bimbo dal silenzio inquietante, e così mi è venuto in mente: Lazlo. Quell’anno dovetti battezzare talmente tanti bambini che seguii qualsiasi idea mi venne in mente». Poi aggiunse, come se ci riflettesse ancora: «Comunque non pensavo che saresti sopravvissuto».
Quello fu l’anno in cui Zosma cadde in ginocchio e perse il sangue di tanti uomini in una guerra inutile. La guerra, certo, non si accontentò dei soldati. Vennero bruciati i campi; saccheggiati i villaggi. Bande di contadini senza più casa vagavano nelle campagne bruciate lottando contro i corvi per spigolare i resti. Ne morirono talmente tanti che i carri di solito destinati a trasportare i ladri alla forca, vennero destinati a portare gli orfani nei conventi e nei monasteri. Arrivavano, a sentire i monaci, come un carico di agnelli, e degli agnelli avevano la stessa inconsapevolezza riguardo le loro origini. Alcuni, per lo meno, erano abbastanza grandi da conoscere i propri nomi, ma Lazlo era soltanto un neonato, e malato, per giunta.
«Grigio come la pioggia, eri», disse fratello Argos. «Pensavo che di sicuro saresti morto, ma mangiavi e dormivi e con il tempo il tuo colore si fece normale. Non hai pianto mai, nemmeno una volta, il che era una cosa innaturale, ma proprio per questo ci piacevi di più. Nessuno di noi si è fatto monaco per diventare una bambinaia».
Allora il piccolo Lazlo ribattè, con l’anima in fiamme: «E nessuno di noi è nato per diventare orfano».
Tuttavia lui era un orfano, e uno Strange, e per quanto fosse incline alla fantasia, non si fece mai nessuna illusione su questo. Sin da bambino capì che non ci sarebbe stata alcuna rivelazione. Nessuno sarebbe venuto a prenderlo e lui non avrebbe mai conosciuto il suo vero nome.
E forse è per questo che il mistero della città di Pianto lo catturò così completamente.
In realtà i misteri erano due: uno antico, uno nuovo. Quello antico gli aprì la mente, ma fu quello nuovo a farsi strada dentro di lui, a compiere lenti giri circolari e finalmente ad assestarsi con un grugnito – come un drago soddisfatto in una comoda tana nuova. E lì sarebbe rimasto – il mistero nella sua mente – esalando enigmi per gli anni a venire.
Aveva a che fare con un nome e con la scoperta che, oltre a essere stati persi o dimenticati, i misteri potevano anche essere stati rubati.
Aveva cinque anni quando accadde, un trovatello dell’abbazia di Zemonan, ed era sgattaiolato nel vecchio frutteto infestato da sparvieri e insetti per giocare da solo. L’inverno era appena iniziato. Gli albero erano neri e spogli. I suoi piedi rompevano una crosta ghiacciata a ogni passo e gli sbuffi del suo fiato lo accompagnavano come un amico fantasma.
Suonò l’Angelus, la voce bronzea della campana si riversò nell’ovile e oltre le mura del frutteto in ondate ricche e lente. Era una convocazione alla preghiera. Se non fosse rientrato l’avrebbe persa, e se l’avesse persa lo avrebbero frustato.
Lazlo non rientrò.
Trovava continuamente dei modi per svignarsela per fatti suoi, e le sue gambe erano perennemente segnate dalla verga di nocciolo che pendeva da un gancio con il suo nome scritto sopra. Ne valeva la pena. Scappare via dai monaci, dalle regole, dai doveri e da una vita che lo pressava come un paio di scarpe strette.
Per giocare.
«Tornate indietro adesso, se sapete cosa è meglio per voi», intimava a dei nemici immaginari. Teneva una “spada” in ogni mano: neri rami di melo con le estremità tozze avvolte nello spago per farne delle else. Lazlo era un trovatello smunto e denutrito, con la testa piena di tagli provocati dai monaci che la rasavano per prevenire i pidocchi, ma aveva un atteggiamento di raffinata solennità e non c’era alcun dubbio che nella sua mente, in quel momento, lui si considerasse un guerriero. E non un guerriero qualsiasi, ma un Tizerkane, i più feroci mai esistiti. «Nessuno straniero», diceva ai suoi avversari, «ha mai posato gli occhi sulla città proibita. E finché io respirerò, nessuno lo farà mai».
«Allora siamo fortunati», rispondevano i nemici, e per Lazlo erano più reali loro, nella luce del tramonto, dei monaci i cui canti dall’abbazia scendevano giù per la collina. «Perché non respirerai ancora per molto».
Gli occhi grigi del bambino si stringevano come due fessure. «Pensate di poter battere me?».
Gli alberi neri cominciavano a danzare. Il suo respiro usciva in rapidi sbuffi che si rincorrevano uno dietro l’altro. La sua ombra si stendeva enorme di fronte a lui e nella sua mente si affacciavano antiche guerre ed esseri alati, una montagna fatta di ossa fuse di demoni e la città che sorgeva dall’altra parte… una città che era scomparsa nella nebbia del tempo.
Questo era il mistero antico.
Ne era venuto a conoscenza da un monaco anziano, fratello Cyrus. Era malato e gli orfani avevano il compito di portagli i pasti. Non era un uomo gentile. Non era una figura paterna, né un mentore. Aveva una presa formidabile ed era noto perché aveva l’abitudine di afferrare i bambini per il polso e di tenerli lì per ore, obbligandoli a ripetere un catechismo sconclusionato e a confessare ogni genere di malvagità che loro riuscivano a malapena a comprendere, figuriamoci se potevano averla commessa. Erano tutti terrorizzati da lui e dalle sue nodose mani rapaci e i bambini più grandi, lungi dal proteggere i piccoli, li mandavano nella tana del vecchio al posto loro. Lazlo era spaventato come gli altri, eppure si offriva di portare tutti i pasti.
Perché?
Perché fratello Cyrus raccontava storie.
All’abbazia le storie non erano viste di buon occhio. Come minimo, distraevano dalla contemplazione spirituale. Nel peggiore dei casi onoravano falsi dèi e covavano il peccato. Ma fratello Cyrus aveva oltrepassato simili restrizioni. La sua mente aveva ormai mollato gli ormeggi e preso il largo. Sembrava che non sapesse mai dove si trovava e quello stato confusionale lo faceva infuriare. Il viso gli diventava sempre più rosso e teso. Una pioggia di sputi accompagnava le sue invettive. Ma aveva anche dei momenti di calma: quando sgattaiolava in qualche porta nascosta della memoria e tornava alla sua infanzia e alle storie che gli raccontava sempre la nonna. Non riusciva a raccontare i nomi degli altri monaci, né le preghiere che per decenni erano state il suo mestiere, ma le storie gli fluivano dalla bocca e Lazlo le ascoltava. Ascoltava con l’avidità di in cactus che beve la pioggia.
Nella parte meridionale e orientale del continente di Namaa – molto, molto lontano dal settentrionale regno di Zosma – c’era un vasto deserto chiamato Elmuthaleth, il cui attraversamento era un’arte perfezionata da pochi e ferocemente custodita contro tutti gli altri. Da qualche parte, in quell’immenso vuoto, sorgeva una città che nessuno aveva mai visto. Era una diceria, una leggenda, ma era una diceria e una leggenda da cui arrivavano meraviglie portate dai cammelli attraverso il deserto per infiammare le fantasie delle genti di tutto il mondo.
La città aveva un nome.
Gli uomini che conducevano i cammelli, che portavano le meraviglie, pronunciavano il nome e raccontavano le storie, così il nome e le storie si fecero strada, insieme alle meraviglie, fino a terre lontane dove evocavano visioni di cupole luccicanti e candidi cervi addomesticati, donne talmente belle da confondere la mente e uomini con scimitarre di una lunghezza abbagliante.
Fu così per secoli. Intere ali dei palazzi signorili erano dedicate alle meraviglie e interi scaffali delle biblioteche alle storie. I mercanti si arricchirono. Gli avventurieri si fecero più audaci e andarono da soli in cerca della città. Nessuno tornò. La città era interdetta ai franai – gli stranieri – che, se sopravvivevano alla traversata dell’Elmuthaleth, venivano giustiziati come spie. Non che questo impedisse loro di tentare. Proibisci qualcosa ad un uomo e lui la desidererà come se fosse la salvezza della sua anima, ancora di più poi se è la fonte di incomparabili ricchezze.
Molti tentarono.
Nessuno fece mai ritorno.
L’orizzonte deserto generò un’alba dopo l’altra e sembrava che niente sarebbe mai cambiato. Ma poi, duecento anni prima, le carovane smisero di arrivare. Negli avamposti occidentali dell’edmuthaleth – Alkonost e altri – cercavano di avvistare le sagome delle colonne di cammelli deformate dal calore che emergevano dal vuoto come avevano sempre fatto, ma non vennero.
E non vennero.
E non vennero.
Non vi furono più cammelli, né uomini, né meraviglie e nemmeno storie. Mai. Questa fu l’ultima notizia arrivata dalla città proibita, la città invisibile, la città perduta e questo fu il mistero che aprì la mente di Lazlo come una porta.
Che cos’era accaduto? La città era esistita davvero? Lui voleva sapere tutto. Imparò a persuadere fratello Cyrus a tornare in quel posto di ricordi e così collezionò le storie come un tesoro. Lazlo non possedeva niente, nemmeno una singola cosa, ma sin dall’inizio le storie gli sembrarono la sua personale riserva aurifera.
Le cupole della città, diceva fratello Cyrus, erano tutte collegate da nastri di seta e i bambini si tenevano in equilibrio su di essi come funamboli, correndo da un palazzo all’altro vestiti con cappe di piume colorate. Nessuna porta era mai chiusa, per loro, e persino le gabbie erano aperte affinché gli uccelli potessero andare e venire a loro piacimento, e ovunque crescevano frutti strabilianti, pronti per essere colti, e sui davanzali delle finestre venivano lasciate delle torte, libere di essere prese.
Lazlo una torta non l’aveva mai nemmeno vista, figuriamoci assaggiata, ed era stato frustato per aver mangiato delle mele cadute che avevano più vermi che polpa. Quelle visioni di libertà e abbondanza lo stregavano. Di sicuro distraevano dalla contemplazione spirituale, ma così come vedere una stella cadente distrae dal dolore di uno stomaco vuoto. Segnarono la sua prima considerazione che forse potevano esserci altri modi di vivere oltre all’unico che conosceva. Modi migliori, più dolci.
Le strade della città, diceva fratello Cyrus, erano lastricate di lapislazzuli e tenute scrupolosamente pulite in modo da non insozzare i lunghissimi capelli che le signore portavano sciolti e che si trascinavano dietro come strascichi di seta nerissima. Eleganti cervi bianchi giravano per le strade come cittadini e nel fiume nuotavano rettili grandi come uomini. I primi erano spectral, e la sostanza delle loro corna – spectralys o lys – era più preziosa dell’oro. I secondi erano svytagor, il cui sangue rosa era un elisir per l’immortalità. C’erano anche dei ravid – enormi gatti con zanne simili a scimitarre – e uccelli che imitavano la voce umana, e scorpioni il cui pungiglione conferiva una forza micidiale.
E c’erano i guerrieri Tizerkane.
Brandivano spade chiamate hreshtek, abbastanza affilate da tagliare via un uomo dalla sua ombra, e portavano con sé degli scorpioni chiusi in gabbie d’ottone agganciate alla cintura. Prima della battaglia, infilavano un dito in una piccola apertura della gabbia per essere punti e, sotto l’influenza del veleno, diventavano inarrestabili.
«Pensate di poter battere me?», così Lazlo sfidava i suoi nemici del frutteto.
«Noi siamo cento», rispondevano loro, «e tu soltanto uno. Secondo te?».
«Secondo me dovreste credere a tutte le storie che avete sentito sui Tizerkane, girare i tacchi e tornarvene a casa!».
Le loro risate risuonavano come lo scricchiolio dei rami e Lazlo non poteva fare altro che combattere. Piantava il dito nella piccola gabbia sbilenca formata da spago e ramoscelli che pendeva dalla corda che teneva legata in vita. Non c’era nessuno scorpione là dentro, soltanto uno scarafaggio intontito dal freddo, ma Lazlo stringeva i denti per sopportare il dolore di una puntura immaginaria e sentiva il veleno che faceva fiorire la forza nel suo sangue. Poi sollevava le sue lame, le braccia alzate in una V, e ruggiva.
Ruggiva il nome della città. Come il tuono, come una valanga, come l’urlo di guerra dei serafini che erano arrivati su ali di fuoco e avevano nettato il mondo dai demoni. I suoi avversari vacillavano. Restavano a bocca aperta. Il veleno cantava dentro di lui e lui era più di un umano. Era un turbine. Era un dio. Loro tentavano di combattere, ma per Lazlo non c’era storia. Le sue spade sprizzavano lampi di luce mentre, a due a due, lui li disarmava tutti.
Nel vivo del gioco, il suo sogno a occhi aperti era talmente vivido che uno scorcio di realtà lo avrebbe scioccato. Se avesse potuto farsi da parte e vedere il bambino che si scagliava tra le felci indurite dal ghiaccio, roteando dei rami, si sarebbe a malapena riconosciuto, tanto nella sua mente incarnava il guerriero che aveva appena disarmato un centinaio di nemici e li aveva rispediti barcollanti a casa loro. In trionfo, il bambino gettò indietro la testa e urlò…
…urlò…
«Pianto!».
Si bloccò, frastornato. La parola gli era uscita dalle labbra come una maledizione, lasciando un retrogusto di lacrime. aveva provato ad afferrare il nome della città, proprio come un attimo prima, ma… era scomparso. Riprovò e ancora ritrovò al suo posto “Pianto”. Era come tendere la mano per prendere un fiore e riportare indietro un lumacone o un fazzoletto fradicio. La sua mente si ritrasse da quell’immagine. Lazlo, però, non riusciva a smettere di tentare e ogni volta era peggiore della precedente. Procedeva a tentoni cercando quello che sapeva essere lì, e tutto quello che pescò fu la terribile parola “Pianto”, viscida e sbagliata, umida come un brutto sogno e con lo stesso residuo sapido. La bocca del bambino si arricciò piena di amarezza. Una sensazione di vertigine lo inondò, insieme alla folle certezza che fosse stato rubato.
Era stato tirato via dalla sua mente.
Si sentì nauseato, derubato. Sminuito. Risalì di corsa il pendio inerpicandosi sui bassi muri di pietra, si lanciò come una furia nel recinto delle pecore, oltrepassò il giardino e il chiostro, sempre con le spade di rami strette in mano. Lui non vide nessuno, ma qualcuno vide lui. C’era una regola che proibiva di correre e, comunque, Lazlo sarebbe dovuto essere ai vespri. Il bambino corse difilato nella cella di fratello Cyrus e lo scosse per svegliarlo. «Il nome», disse, ansimando per il fiatone. «Il nome è scomparso. La città delle storie, dimmi il suo nome!».
Sapeva, dentro di sé, che non lo aveva dimenticato, che questo era diventato qualcos’altro, qualcosa di strano e oscuro, ma c’era ancora la possibilità che forse fratello Cyrus lo ricordasse e che tutto sarebbe andato bene.
Ma fratello Cyrus disse: «Di che parli, sciocco ragazzino? E’ pianto…». E Lazlo ebbe appena il tempo di vedere il volto del vecchio cedere alla confusione prima che una mano si chiudesse sul suo colletto e lo tirasse con uno strattone fuori dalla porta.
«Aspetta», implorò. «Per favore». Invano. Venne trascinato fino all’ufficio dell’abate e, quando lo frustarono, questa volta non fu con la sferza di nocciolo che era appesa alla fila delle sferze di tutti gli altri bambini, ma con uno dei suoi rami di melo, In quel momento non era certo un Tizerkane. Di centinaia di nemici, neanche a parlarne; venne disarmato da un solo monaco e battuto con la sua stessa spada. Che razza di eroe. Zoppicò per settimane e gli venne proibito di vedere fratello Cyrus, il quale si era girato così tanto per la sua visita che dovettero sedarlo.
Dopodiché non vi furono altre storie e nemmeno altre fughe – almeno non nel frutteto o in un qualunque posto fuori dalla sua mente. I monaci lo tenevano sott’occhio, decisi a tenerlo lontano dal peccato… e dalla gioia che, se non proprio esplicitamente, come minimo gli apriva la strada. Lo tennero impegnato. Se non stava lavorando, stava pregando. Se non stava pregando, stava lavorando sempre sotto una “adeguata supervisione” per impedirgli di scomparire come una creatura selvaggia in mezzo agli alberi. Di notte Lazlo dormiva, esausto come un becchino, troppo stanco persino per sognare. Sembrava davvero che il suo fuoco interiore fosse stato domato, e il tuono e la valanga, l’urlo di guerra e il turbine, tutto sradicato.
Quanto al nome della città scomparsa, era scomparso anche lui. Ma Lazlo avrebbe ricordato per sempre la sensazione che gli aveva lasciato nella mente. Gli era sembrato come se fosse stato scritto con una calligrafia fatta di miele, e questo era quanto di più simile lui – o chiunque altro – potesse descrivere. Non erano soltanto lui e fratello Cyrus. Ovunque il nome fosse stato trovato – stampato sul dorso del volumi che contenevano le sue storie, nei vecchi, ingialliti libri mastri dei mercanti che avevano acquistato i suoi beni e intrecciato ai ricordi di chiunque lo avesse mai udito – venne semplicemente cancellato e “Pianto” fu lasciato al suo posto.
Questo era il mistero nuovo.
Questo, Lazlo non ne dubitò mai, era magia.

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